“Al contrario” è il nuovo romanzo di Giuseppina Torregrossa. Sarà disponibile dal 20 maggio in libreria per Feltrinelli.

Al contrario rievoca una condizione conosciuta

Si sviluppa in una Macondo siciliana, un paese immaginario di Malavacata. È la storia di una comunità di un entroterra rurale. Attraverso i suoi malanni ci conferisce una descrizione quasi manzoniana dell’epoca. Torregrossa, medico e scrittrice si focalizza su una condizione che per certi versi sentiamo vicina, sebbene sia ambientato tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento. Dall’intervista rilasciata a Repubblica, l’autrice si racconta.

Perché parlare di epidemie in tempo di Covid: scrittura apotropaica o cosa?

«Quando ho iniziato a scrivere il romanzo, di coronavirus non se ne parlava neppure. Sono un medico che vuol conoscere e una scrittrice che vuol raccontare. Volevo descrivere l’evoluzione di una comunità siciliana di agricoltori attraverso l’occhio di un medico condotto. Così è nato nella mia testa Giustino Salonia, personaggio irrequieto e contradditorio che agisce facendo tutto l’opposto di ciò che è conveniente. Rappresenta la sfida, l’imprevedibilità della natura stessa. Come quando pensa di avere sconfitto le malattie infettive grazie agli antibiotici portati dagli americani e si ritrova a contrastare mesotelioma e cancro ai polmoni portati dalle fabbriche di amianto, dove vanno a lavorare i contadini diventati operai. In fondo, questa pandemia può farci ritornare agli anni Venti, segnati dalla Spagnola e padri delle malattie infettive. La malattia è esperienza della vita».

Forse, però di esperienza l’uomo non ne ha mai troppa. Salute, animali, ambiente: da dove bisogna ricominciare?

«Bisogna ricominciare dagli anni Venti: è lì che comincia il vulnus, è lì che comincia il percorso sbagliato verso l’illimitata crescita capitalista. Le emissioni odierne sono solo sintomi di malattie dell’anima, iniziate già nella Sicilia di Mussolini, che per promuovere i semi ibridi e le coltivazioni di grano intensive fece sì che scomparissero ulivi e mandorli. Io riparto da una comunità agricola che mi ha permesso di osservare da vicino il rapporto uomo-natura e le disfunzioni che ne conseguono».

Da allora però qualcosa è cambiato?

«Sì, abbiamo accelerato verso i consumi, la produzione e gli insediamenti umani, portando a un contatto sempre più stretto con la popolazione animale, diventata però oggetto di sfruttamento. Nel 1930, i contadini si ammalavano di tracoma, come mostreranno più tardi i fotoreportage di Robert Capa. Erano lesioni corneali, i cosiddetti “occhi ruvidi”, causate da un batterio trasmesso dalle mosche. Non è difficile capire che il contatto con gli animali, custoditi persino in casa era letale. Era promiscuità, mentre oggi c’è una dipendenza dal mondo animale che ci ha fatto perdere il valore della vita stessa».

Qual è il ruolo dell’immaginazione di fronte alla malattia e ai cambiamenti del nostro pianeta?

«La medicina ci spiega tanto, anche più di prima, ma ciò che le cose significano per gli uomini, i sentimenti, i drammi sociali, quello lo spiegano gli scrittori. Io almeno, provo a descrivere le emozioni dei piccoli dentro il più ampio quadro della Storia, pensando sempre che dietro a numeri, virus e antibiotici ci stanno sempre le persone. Perché la letteratura è militanza e io credo nella sua forza di farsi grimaldello. Ci sarà un racconto della pandemia, di certo, ma adesso è prematuro, ci vogliono il filtro del tempo e i dati esatti non minati dalla sfiducia».

«Ogni autore ha una visione che arriva a un punto in cui si mostra l’incapacità di un sistema: oggi come ai tempi della malaria o della tubercolosi, assistiamo all’assenza di un sistema a lungo termine. Della malaria ce ne siamo liberati non solo grazie al chinino ma anche per le bonifiche agrarie delle paludi durante il fascismo, in Sicilia nella Valle del Torto, ad esempio. Nella mia Malavacata, paese immaginario, c’è una società dove ognuno fa la sua parte e tutto finisce per ruotare attorno allo studio medico di Giustino Salonia, esempio di chi corre in direzione opposta, di una personalità al contrario, che lo renderà libero di agire, come quando decide di dare il chinino anche alle donne dei contadini, e felice di sbagliare».

La natura agisce indipendentemente, sta all’uomo la scelta: riadattarsi di continuo o morire?

«E certo: la storia diacronica delle epidemie ce lo ha dimostrato. Nel mio romanzo c’è un personaggio molto simbolico, Domenico Frangipane, detto Mimì Stallatico, un uomo saggio che ha un rapporto di profondo rispetto con la terra che coltiva. Lui si oppone con decisione alle nuove coltivazioni intensive promosse dall’istituto del grano. Dirà “la Terra è femmina”, ovvero bisogna darle il suo tempo, senza ingravidarla eccessivamente. Sta tutto nell’equilibrio tra noi e la Terra il gioco».

Il romanzo avrà un seguito?

«In questo libro parto dagli anni Venti e arrivo all’armistizio del 1943. Nei miei progetti, c’è una trilogia che, passando per l’Hiv della fine degli anni Settanta, arriva fino agli anni Ottanta, con le malattie dell’Rna, preludio al “nostro” coronavirus».

Ma non c’è il rischio che i lettori si stufino di sentir parlare di malattie?

«Sì, eccome. Però è innegabile che la malattia ti pone davanti al limite: quello estremo, con la morte, o quello relativo all’idea di doverti reinventare l’esistenza. E poi c’è la società, che grazie alle malattie e alle pandemie planetarie ha fatto progressi e passi indietro in fatto di ambiente e salute. Insomma, di malattia parlano le nostre vite. Sta a noi scrittori trovare il miglior modo per parlarne».

Quale?

«Rendendola umana».

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Categorie: Moda